“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo.” Con queste parole Hannah Arendt portava il suo più efficace attacco alla convinzione diffusa che il Male – inteso nel caso specifico con la barbarie nazista – si affermi attraverso una rottura radicale, un Evento cataclismatico o un’ora X. Al contrario, partendo dal processo al gerarca nazista Eichmann, Arendt dimostra come nella realtà concreta il Male si insinua progressivamente, in modo quasi impercettibile, spostando giorno dopo giorno il confine del tollerabile. A realizzare il Male non è quindi l’intervento improvviso e violento di una figura demoniaca (Hitler) ma la progressiva assuefazione delle persone comuni, che pur di vedersi garantita la propria quotidianità spostano esse stesse il confine del tollerabile e salvano la coscienza scaricando le proprie piccole responsabilità su una gerarchia che diviene catena automatizzata, forme legali a prescindere da qualsiasi sostanza e presunti consensi maggioritari al di là di qualsiasi merito. Solo un’integrale dichiarazione di impotenza, la resa totale e incondizionata dell’individuo in quanto soggetto cosciente e agente, permette alla ragione di mettersi in salvo.
E’ dunque poco rilevante individuare a quale punto del piano inclinato si collocano la nomina di Blangiardo a presidente dell’ISTAT o l’azione del governo Salvini (no, non è una svista di chi scrive) in rapporto alla barbarie nazifascista. Proprio perché la barbarie non è un evento particolare ma un processo molecolare, l’aspetto qualitativamente determinante diviene il riscontrare che la pendenza del piano è la medesima e quindi già qui e ora vengono a mancare gli anticorpi necessari all’individuo per porsi come agente cosciente e non come semplice ingranaggio automatizzato interno alla banalità del Male. Il problema non può essere posto nel momento in cui il rapporto diventa credibile, per il semplice motivo che a quel punto si può solo registrarne il ritardo piangendo alle lezioni mancate della storia. In altri termini l’ipocrisia che genera se stessa e che, usando le parole di Arendt, si espande come un fungo.
Come definire altrimenti il silenzio assordante dei dirigenti dell’Istituto nazionale di Statistica dinanzi ad una nomina lottizzata come non mai, priva dei minimi requisiti di imparzialità e credibilità scientifica, capace persino dinanzi alla Commissione della massima istituzione democratica di ribadire, piuttosto grossolanamente, numeri artefatti e ipotesi teoriche bislacche misti a battute da Bagaglino per rendere il tutto un po’ più umano ed accettabile? Possibile che la tutela del lavoro svolto dall’Istituto Nazionale di Statistica sia a cura esclusiva dei dipendenti e delle loro rappresentanze sindacali? Cosa dovrebbe accadere di maggiormente offensivo per scatenare la reazione di chi ha la responsabilità non solo di dirigere il lavoro di una parte dell’istituto, ma anche di difenderne la credibilità? Mentre invece quel che appare è esattamente il prevalere della tutela della propria quotidianità, della propria posizione, del proprio ruolo, a scapito del tollerabile.
Ma il tollerabile, dovrebbero ricordare i nostri dirigenti, non è un confine astratto, teorico o ideologico. Il tollerabile è la sommatoria degli effetti vivi che genera sulla pelle delle donne e degli uomini posti sulla linea di confine. La mistificazione del nostro lavoro scientifico si traduce nella rimozione di vite reali, nell’oscuramento di drammi collettivi che si parli di migrazioni o di aborti clandestini. Non c’è legge, maggioranza o procedura burocratica che possa farci scordare questo, a maggior ragione se si ricoprono ruoli di direzione e non di semplice impiego. Se lo dimentichiamo non abbiamo perso il semplice senso della misura e del tollerabile. Abbiamo perso la nostra umanità e la banalità del Male è già assolutamente pronta a sostituire la nostra.
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